Vi siete mai fermati a chiedervi « Ma io, perché fotografo?» Cosa ci spinge a definire, isolare, comporre e imprigionare porzioni di realtà e vita all’interno di un’inquadratura? E’ sicuramente una domanda elementare ma forse, come tutte le cose apparentemente semplici, permette di scoprire verità interessanti e di capire qualcosa di più su di noi. Parliamone insieme.
Dietro alla pressione del nostro indice sul pulsante di scatto della nostra macchina fotografica il più delle volte si ciela un mondo cui, molto spesso, non viene prestata sufficiente attenzione. C’è, infatti, un collegamento diretto tra il nostro animo, la nostra sensibilità, la nostra mente e quell’impulso irrefrenabile che così spesso avvertiamo quando dobbiamo dar vita ad una fotografia. Ma cosa guida questo impulso? Cosa ci spinge ad alzarci nel bel mezzo della notte durante una vacanza con i nostri cari o amici, fare decine di chilometri in macchina o camminate di ore rinunciando al sonno ed al (meritato) riposo per raggiungere quel posto in particolare da cui poter fotografare l’alba?
Vogliamo immortalare il mondo così come lo vediamo? Oppure vogliamo cercare di fermare un istante nel continuo, lento ed inesorabile scorrere del tempo per cercare di affievolire l’ansia che deriva dalla consapevolezza della nostra dimensione transitoria? Spesso, infatti, non ce ne rendiamo conto ma il motivo per cui scattiamo una fotografia è ancorare il nostro ricordo ad una immagine, un luogo, un volto e renderlo disponibile indefinitamente. Si potrebbe quasi dire che fotografiamo per sfuggire il trascorrere del tempo. Ma ogni fotografia è una forte e, spesso, inconsapevole presa di posizione di fronte al mondo, il frutto di una decisione. Ogni persona ha un punto di vista differente, che nasce da quello che ha vissuto, imparato e visto in ogni momento della sua vita. La fotografia, lo sa benissimo chiunque fotografa, nasce dal terreno delle passioni, trae forze ed ispirazione dal nostre emozioni più profonde. Le immagini che creiamo parlano sempre di noi, raccontano agli altri i nostri sogni e le nostre paure, dipingono un quadro di chi siamo e di chi vorremmo essere e testimoniamo il lento procedimento di auto analisi e crescita che ciascuno di noi realizza nell’arco della propria vita.
Diceva il pioniere della fotografia Nadar: “la tecnica fotografica può essere insegnata in un’ora e la sua tecnica base in un giorno. Tuttavia quello che non può essere insegnato è il sentimento della luce.”
Oggi, però, capita sempre più spesso che il principale argomento di discussione tra fotografi a qualsiasi livello sia su quale corpo macchina sia migliore, su quale lente sia più veloce o nitida, su quale tecnica di post-produzione permetta di fare miracoli in post. Sembra quasi che lo strumento e la tecnica siano diventati il fine della fotografia e che non ci si fermi più a chiedersi il perché si stia facendo qualcosa.
Di certo, la fenomenale diffusione che le fotocamere digitali anni avuto a partire dai primi anni 2000 ha avuto un forte impatto su questo particolare modo di approcciare alla fotografia: la digitalizzazione e l’integrazione di sensori fotografici in qualsiasi apparecchio elettronico hanno portato alla più grande democratizzazione fotografica della Storia. Questo, però, ha fatto anche si che lentamente ci abituassimo ad essere sommersi da un flusso costante di immagini, ci ha reso accaniti consumatori di pixel spesso per il solo tempo necessario ad una condivisione di pochi istanti prima che l’immagine scompaia nel buio delle memorie dei nostri cellulari o di qualche server che raccoglie le nostre immagini in rete. Facciamoci caso la volta prossima che usciamo di casa: al ristorante, ad un concerto, in macchina, in spiaggia, in un parco, lungo i marciapiedi, in ufficio, al bar. Ovunque c’è qualcuno che scatta fotografie il cui fine ultimo è la condivisione istantanea con il mondo. Ma quel momento lo stiamo veramente vivendo o siamo troppo impegnati ad informare gli altri di ciò che sta accadendo? Viviamo ciò che fotografiamo oppure fotografiamo ciò che invece dovremmo essere impegnati a vivere con i nostri sensi e la nostra attenzione?
Gira su internet da ormai un bel po’ di tempo questa immagine. Vi invito a guardarla attentamente.
L’immagine in alto è stata scattata nel 2005 in Piazza San Pietro a Roma in occasione della morte di Papa Giovanni Paolo II, mentre quella inferiore nel 2013 in occasione dell’arrivederci di Papa Benedetto XVI e dell’arrivo di Papa Francesco. Stante i differenti stati emotivi delle due situazioni ed il fatto che la prima sia stata scattata durante un momento di attesa mentre la seconda al momento dell’uscita di Papa Francesco, penso però che sia evidente come la tecnologia stia molto profondamente influendo sul modo in cui viviamo la nostra vita e su come ci stia rendendo spettatori piuttosto che attori degli eventi cui prendiamo parte.
Per sottolineare questo concetto, voglio raccontarvi una mia esperienza personale. In un recente viaggio, ho organizzato una escursione alle Grotte di San Canziano in Slovenia. Carico di aspettative fotografiche, all’ingresso delle grotte mi è stato comunicato che all’interno delle stesse era vietato fotografare. L’impossibilità di scattare fotografie è stata una gran delusione, ma questa iniziale sensazione che minacciava di rovinare la visita ad una delle grotte carsiche più belle ha lasciato il passo ad una esperienza indimenticabile. Ho potuto rallentare, concedermi il tempo per consentire alle mie emozioni sedimentare e creare ricordi indelebili, ho potuto vivere il luogo che stavo attraversando e lasciarmi meravigliare da un posto diverso da qualsiasi cosa io abbia avuto la fortuna di vedere nei miei viaggi. Avrei potuto vivere la stessa esperienza se fossi stato impegnato a fotografare, lottando con gli ISO, l’apertura ottimale, il bracketing… non lo so con certezza, ma sono convinto che a volte posare la macchina fotografica sia la cosa migliore che possiamo fare. Detto questo, la volta prossima farò i salti mortali per avere l’autorizzazione a fotografare quelle grotte! 🙂
L’altro giorno mi è capitato tra le mani un interessantissimo articolo di Michele Smargiassi intitolato Le foto di massa che nessuno guarda, apparso su La Repubblica del 18 Giugno 2013. Il quadro dipinto è sconcertante: due italiani su dieci (ma secondo me molti di più) dichiarano di non scaricare mai le proprie fotografie dal cellulare o dalla scheda di memoria, 24 milioni di italiani hanno caricato circa 5 miliardi di immagini su Facebook, il 70% degli italiani conserva tutte le proprie fotografie esclusivamente in formato digitale in hard disk, flash drives o CD, senza più stampare una singola immagine.
Rimane, quindi, la domanda con cui abbiamo aperto: cosa ci spinge a fotografare? Apparentemente scattiamo per non dimenticare, per piacere, per bisogno di accettazione del prossimo, per narcisismo, per dipendenza dalla condivisione sui social network… a me, però, piace pensare che ci sia ancora qualcuno che crea immagini per raccontare storie e descrivere se stesso attraverso l’obiettivo, che da voce alla propria creatività e alla propria personalità, nonché al proprio unico punto di vista sul mondo che lo circonda. Mi piace pensare che ci sono ancora persone che cercano di capire se stesse attraverso le proprie fotografie.
E voi, perché fotografate? Fateci sapere le vostre motivazioni lasciando un commento usando il box qui sotto oppure partecipando alla discussione sulla nostra pagina Facebook!!