Molto spesso, nelle mie peregrinazioni a zonzo sulla nostra amata Terra, ho incrociato tanti che, come me, erano in viaggio perché curiosi di scoprire il mondo e raccontarlo nell’unico modo che conoscevano: con la macchina fotografica. Ma perché viaggiamo? E perché non riusciamo a separarci dalla nostra macchina fotografica?
Un viaggiatore è, per definizione, una persona che si muove nell’Universo attraversando lo spazio-tempo – o, almeno, è questo se ci affidiamo alla visione copernicana del mondo in cui viviamo.
Ma, muovendosi nel mondo e affrontando un viaggio, ci si accorge – in un importante momento di epifania e consapevolezza – che è vero l’opposto, che siamo noi il centro dell’Universo, quasi a ridare credito e credibilità alle più antiche cosmogonie che volevano la Terra e l’Uomo in una posizione privilegiata del Cosmo.
Per quanto paradossale possa sembrare, i Viaggiatori infatti restano fermi: ci si porta l’inseparabile macchina fotografica – estensione della propria anima e materializzazione di una curiosità insaziabile – un libro, un iPod carico di musica, i volti di persone care e amici, sogni, speranze e desideri nello stomaco e spesso un portatile che rappresenta il cordone ombelicale con quel mondo che ci si è lasciati alle spalle. E attorno a tutto questo, l’Universo continua a muoversi e a ruotare.
Viaggiare non è una corsa per raggiungere un luogo o una destinazione, ma piuttosto fermarsi per poter totalmente assorbire ciò che si ha attorno, che sia una Cultura diversa e lontana, oppure un paesaggio o ancora i suoni di ciò che non si conosce. E’ chiudere per una volta l’ombrello e sentire un temporale tropicale, con le sue gocce pesanti e cariche di vita, sulla pelle e sull’anima.
Ma viaggiare riguarda anche creare situazioni nuove, cercare quella avventura che ci porta indietro nel tempo per farci tornare esploratori – e poco importa se non siamo pionieri, ciò che conta davvero è che la scoperta sia pionieristica per noi – attraverso momenti ed esperienze casuali, come se fossimo particelle in balia della meccanica quantistica, come se accettassimo per un momento che Dio giochi a dadi con gli avvenimenti della nostra vita. Ci sono attività nella vita di tutti noi, come leggere un libro, conoscere una persona o risolvere un problema complesso, che sono simili ad un viaggio, un percorso che si va dipanando lentamente nel tempo, senza che si possa essere sicuri che la meta venga raggiunta. Si può solo fare un passo dopo l’altro. Ma partire per un viaggio, beh, questa è tutta un’altra storia: si scrive un libro con le proprie azioni e con le proprie parole.
E allora, scegliere una meta – quando strettamente necessario – ed un periodo in cui muovere il primo passo è come andare a delineare un indice, l’ossatura di un racconto il cui protagonista dipenderà interamente dalle nostre azioni. E che andrà via via cambiando in una metamorfosi che passo dopo passo lo trasforma in chi è veramente e non il prodotto dell’ambiente che lo circonda.
Si è, infatti, in ascolto costante della propria voce interiore, dei propri pensieri mentre si silenzia quel rumore di fondo che ci accompagna e ci distrae nella vita di tutti i giorni. Solo allora, vinta la solitudine, vinta la paura di ascoltarsi veramente e della solitudine, vinto il timore di guardarsi dentro si riesce davvero a sentire le proprie parole.
C’è chi riesce a trasmettere questo intenso dialogo interno attraverso parole. C’è chi, invece, lo fa tramite la luce e le immagini che crea. Per questo, ovunque io vada e qualunque sia la causa che mi porta sulla strada, ho sempre una macchina fotografica con me. Non necessariamente zaini pieni di attrezzatura, ma una macchina fotografica qualsiasi che mi consenta di parlare con me stesso attraverso le mie immagini, di farmi delle domande su di me e sul luogo che sto conoscendo e cercare in una inquadratura, nel dialogo e nei volti di qualcuno del posto, nei colori e nelle atmosfere le risposte alle domande che ogni viaggio solleva e propone. Alcune insistenti e periodiche, altre sempre nuove ed entusiasmanti.
Penso. Osservo. Penso. Scatto. E questo, credo, è quanto.
E voi? Come affrontate lo stato mentale di viaggiare e fotografare? Fatecelo sapere lasciando un commento qui in basso oppure mettendo “Mi piace” alla nostra pagina Facebook e partecipando alla discussione sulla bacheca.
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P.S. Grazie ad Alessandro per aver scattato la fotografia in Islanda che trovate nel corpo dell’articolo